Mettere in discussione l’obbligo vaccinale in generale, e tra i professionisti sanitari in particolare, è un tabù che ostacola un dibattito invece necessario.
La letteratura scientifica indica l’utilità della vaccinazione in termini di efficacia, sebbene vi siano ancora interrogativi in merito alla durata di quest’ultima.
Non vi sono ancora, però, sufficienti evidenze che la sola vaccinazione annulli il rischio di contagio — rimane dunque necessario utilizzare i dispositivi di protezione individuale (DPI), oltre a procedere col tracciamento dei contatti, e a porre attenzione alla salubrità e all’areazione degli ambienti di vita, di lavoro e di socialità. Lo stesso vale nelle strutture sanitarie, dove l’utilizzo costante dei DPI adeguati è stato in grado di ridurre drasticamente il rischio di contagio, anche prima che i vaccini fossero disponibili.
D’altro canto, la campagna vaccinale risulta carente per le persone più a rischio e che vogliono essere vaccinate. Concentrare l’attenzione sul personale sanitario che, al contrario, non vuole la vaccinazione rivela una visione limitata del problema, che ignora l’effetto di numerosi altri fattori in termini di salute pubblica, che siano legati alla campagna vaccinale stessa — criticità logistiche e di definizione dei gruppi prioritari, carenza dei vaccini, esclusione di alcune categorie di persone (tra cui i migranti irregolari, almeno in Regione Lombardia) — o meno — utilizzo dei DPI non sempre adeguato e ottimale anche nelle strutture sanitarie e mancato tracciamento dei contatti.
L’obbligo vaccinale per i professionisti sanitari sembra porsi nel solco di un modus operandi caratterizzato dal colpevolizzare la singola persona, le cui azioni vengono rappresentate come ragione principale dell’incremento dei contagi e del disastro sanitario e sociale.Il tutto mentre la disastrosa comunicazione sui vaccini fa legittimamente sorgere il dubbio di una guerra commerciale tra case farmaceutiche il cui fine non è il controllo della pandemia ma il profitto, mentre non viene condotta una rigorosa e indipendente attività di farmacovigilanza, e mentre si assolvono le istituzioni dalla scarsa implementazione della medicina territoriale, alternativa ai grandi centri ospedalieri dove il contagio ha effettivamente dilagato, e di strategie di prevenzione.
Per gli operatori sanitari, l’obbligo vaccinale si configura come un ricatto ai lavoratori, in termini soprattutto di stigmatizzazione e demansionamento, e una limitazione attualmente non giustificabile al diritto di ogni persona di decidere sul proprio corpo.
Lavorare in ambito sanitario e scientifico non vuol dire, a nostro parere, accettare in modo acritico le misure che vengono proposte: tra gli operatori che rifiutano la vaccinazione, la maggior parte lo fa per ragioni complesse, e per cui sarebbe stato utile un dibattito aperto anziché l’ostracismo.
In termini di salute pubblica, l’obbligo vaccinale non è indispensabile, e non è né il primo né il maggiore dei problemi da risolvere in merito alla gestione della pandemia: il tracciamento dei contatti, la possibilità di isolamento, l’alfabetizzazione sanitaria e l’implementazione della medicina territoriale sono questioni centrali e ancora aperte. A queste si uniscono, a livello globale, il superamento dei brevetti (auspicabile anche su altri farmaci) e la disponibilità universale dei vaccini: è concettualmente contraddittorio obbligare una ristretta parte della popolazione a vaccinarsi, quando interi paesi sono impossibilitati a mettere in atto una capillare campagna di vaccinazione.
Invece che una vaccinazione obbligatoria per pochi, sarebbe auspicabile una politica di salute pubblica realmente per tutti.