Un agguato in stile mafioso ad un compagno dirigente del S.I. Cobas

 

Ieri pomeriggio il compagno Fabio Zerbini è stato attirato in una specie d’imboscata e pestato a sangue. Con la scusa di un incontro per risarcire i danni di un incidente automobilistico (uno specchietto rotto) avvenuto a fine dicembre, è stato attirato in zona Affori.
Appena sceso dall’auto, è stato assalito a tradimento e pestato a sangue.

Gli aggressori si sono quindi allontanati promettendogli una brutta fine se si occuperà ancora dell’organizzazione delle lotte operaie.

Questo pestaggio è la continuazione della strategia repressiva che combina l’intervento delle forze del disordine, con quelle dell’ordine di mafia, n’drangheta e camorra di cui hanno fatto le spese i nostri militanti sindacali , con minacce, processi, pestaggi, incendi d’auto ecc…

Più lo scontro politico si accentua, più si intrecceranno queste azioni atte ad intimidire la lotta dei lavoratori della logistica, ma solo l’estensione di questa, l’organizzazione di essa e dei COBAS potrà garantire una maggior difesa agli attacchi posti in atto dal padronato e dai loro sgherri, contro i sindacalisti attivi.

Non ci faremo intimidire!

Un caloroso saluto e una pronta guarigione va a Fabio, uno dei nostri compagni più in vista nelle lotte portate avanti tra gli operai della logistica.

Il S.I. COBAS nazionale
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Una risposta adeguata al pestaggio di oggi

A tutte le strutture nazionali, territoriali e di fabbrica
A tutti i solidali con le lotte operaie nella logistica

Il pestaggio da me subito oggi può avere responsabilità dirette difficili da definire ma è, in ultima istanza, una chiara rappresentazione politica della reazione borghese al movimento di lotta che sta attraversando l’intero paese, con al centro i facchini (per lo più immigrati) della logistica e del trasporto

La scia degli episodi di violenza contro il movimento di sciopero che continua ad allargarsi è ormai abbastanza lunga da richiedere una risposta all’altezza della situazione con il chiaro obiettivo non di porvi fine (nessuno di noi si può illudere in questo senso) ma, piuttosto, di non segnare il passo e alzare ulteriormente il contenuto (non stupidamente le sole forme) dello scontro

Illusi quei nemici che pensano che tale movimento di lotta passi per alcuni militanti magari (?) più convinti e abnegati di altri.
Il movimento nasce da condizioni materiali ben precisi, destinati ad approfondirsi per via della crisi del capitalismo che impone uno sfruttamento sempre più intenso della classe operaia.
Attentati e pestaggi dei dirigenti e dei delegati più in vista, minacce e ricatti diffusi nelle fabbriche, licenziamenti e violazioni sistematiche dei diritti, cariche, denunce, fogli di via e arresti da parte degli organi repressivi dello stato, non sono altro che sfaccettature diverse di una verità che viene a galla. Da una parte gli sfruttatori dall’altra gli operai che vanno organizzandosi dal basso
Il conflitto è inevitabile e finalmente lo possiamo dire, l’esito tutt’altro che scontato

Stolti quindi anche coloro (tra i presunti amici) che si accontentano di gridare vendetta o che cascano dal pero e si inorridiscono per la violenza appellandosi alla democrazia e al rispetto delle sue regole. Perchè proprio questa è la democrazia, riflesso diretto, anche se distorto, di un dominio di classe che “qualcuno” ha deciso di sfidare, nella convinzione profonda che, battendosi per i bisogni elementari delle grandi masse, si possono anche raggiungere conquiste immediate, per quanto parziali.

Insomma, poco ci deve importare cercare di scoprire l’autore materiale dell’ennesima violenza anti-operaia di cui si è dovuta nutrire la nostra stessa scelta politico-sindacale in quanto S.I. Cobas
La mano che ha colpito non è cattiva (e a pensarci bene non ha fatto nemmeno un gran danno) ma è piuttosto una rappresentazione evidente del fatto che il padronato (incluso i suoi servi, o sgherri, ovviamente) non trova, al momento, una soluzione praticabile per sottrarsi dal ricatto dell’azione operaia.

Quindi, ancora una volta: che fare?
Al momento la mia proposta è una sola: la convocazione di un attivo pubblico di tutte le strutture del S.I. Cobas e di tutti i solidali con questa battaglia, per sfruttare al meglio l’occasione e rilanciare la lotta attraverso uno sciopero generale da organizzarsi….bene

Data la possibilità che tale incontro, che propongo si tenga Domenica 19 gennaio, alle 11 di mattina, possa vedere una certa partecipazione, propongo inoltre che si svolga al Csa Vittoria (Milano) ed in forma pubblica e nazionale

Aspetto conferme o critiche puntuali

Fabio Zerbini

 

INCONTRO: DOMENICA 19 GENNAIO ALLE 11 DI MATTINA AL CSA VITTORIA

La battaglia dei migranti per dignità e uguaglianza: non lasciamoli soli

dal sito MicroMega articolo di Annamaria Rivera

Siamo un paese smemorato, dove tutto si ripete ciclicamente come se accadesse la prima volta. Dove la memoria e l’esperienza non procedono per addizione ma per sottrazione. Dove lo sdegno per ingiustizie e misfatti pubblici resiste finché i media e qualche personaggio politico vogliono farlo durare.

Forti di tale consapevolezza, questa volta non dovremmo mollare. Ora che l’ondata di proteste, invero neppur’essa inedita, dei reclusi nei lager di Stato – si chiamino Cie, Cara o Cpsa – ha ottenuto una speciale risonanza pubblica, dovremmo resistere fino a ottenere una riforma radicale delle normative che regolano l’immigrazione e l’asilo.

Altrimenti tutto tornerà come prima. I lager ridiventeranno “centri di accoglienza”: così il 21 dicembre l’Ansa e molti quotidiani online, anche autorevoli, definivano il Cie di Ponte Galeria, dando per la prima volta la notizia della “protesta choc”, come dicono loro, delle labbra cucite. Il rischio è che siano presto dimenticati tanto le proteste estreme degli “ospiti” quanto l’atto coraggioso del deputato Khalid Chaouki, auto-reclusosi nel Cpsa di Lampedusa. Qui, ricordiamo, sono tuttora trattenuti diciassette sopravvissuti alla strage del 3 ottobre, che il gesto di Chaouki, pur di grande efficacia politica, non è riuscito a liberare al pari degli altri. I diciassette sono ristretti del tutto illegittimamente, in barba all’art.13 della Costituzione: nessun giudice, infatti, ne ha convalidato la privazione della libertà.

Conviene precisare che non è la prima volta che dei senzavoce si cuciono la bocca in segno di protesta. Di frequente lo fanno i detenuti in carceri “normali”. In Tunisia lo hanno fatto, tra gli altri, i “feriti della rivoluzione”, che i governi di transizione hanno abbandonato al loro destino d’indigenza e privazione di cure sanitarie. Lo hanno fatto nel passato recente altri “ospiti” dei lager di Stato, in Italia come in altri paesi, europei e non. Per esempio, a novembre del 2010, nel Cie di Torino, furono una decina a cucirsi la bocca, preceduti, nel Cie di Bologna, da una trentenne tunisina cui era stato rifiutato l’asilo. Nonostante la pregnanza politica e simbolica di questa forma di protesta, l’unica risposta delle autorità italiane fu un certo numero di deportazioni.

Siamo un paese smemorato, dove perfino gli autori della legge 40 del 6 marzo 1998 sembrano immemori del fatto che fu la loro creatura a inaugurare la detenzione amministrativa. Aprendo così la strada a un crescendo di violazioni della Costituzione, dello stato di diritto, dei diritti umani, della stessa Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea: violazioni quasi sempre approvate dal capo dello Stato di turno, compreso l’ultimo.

Siamo il paese dove anche rispettabili politici e rappresentanti di istituzioni, per non dire di buona parte dei giornalisti, ignorano la legislazione sull’immigrazione e quella sull’asilo; e suppongono sia sufficiente qualche ritocco alla Bossi-Fini per “umanizzare” il trattamento discriminatorio, ingiusto e/o crudele inflitto a migranti, profughi e richiedenti asilo. Ignari del fatto che si tratta invece di smantellare non solo i lager di Stato ma anche l’intero impianto che regge norme quasi tutte all’insegna del sorvegliare e punire: perlopiù ispirate dal principio di un diritto differenziato riservato agli “altri”, avarissime nel conferire i diritti di cittadinanza, a cominciare dalla nazionalità italiana e il diritto di voto.

Anche su quest’ultimo versante c’è il rischio che la montagna dell’attuale protagonismo politico di migranti e rifugiati produca solo qualche topolino nato male. Di recente, il ministro della difesa, Mario Mauro, ha avuto l’ardire di proporre “una piccola modifica della Costituzione per dare agli immigrati la possibilità di entrare nelle forze armate” e guadagnare così qualche punto per la concessione della nazionalità italiana. Insomma, se abbiamo capito bene, il ministro ribadisce l’idea di un diritto speciale riservato a una speciale categoria di persone. Abolita, di fatto, la leva obbligatoria da quasi un decennio, si tratterebbe, in sostanza, di reintrodurla solo per gli immigrati: una sorta di reclutamento degli ascari, che andrebbero così a costituire i “battaglioni indigeni”, di funesta memoria coloniale, magari da utilizzare per “missioni di pace” particolarmente difficili.

Non contento di questa bella trovata, nella stessa intervista a Libero Mauro oppone alloius soli, come si dice sbrigativamente, l’oscura nozione dello ius culturae: un concetto (si fa per dire) rubato a Giovanni Sartori, singolare impasto vivente di spocchia accademica, xenofobia smodata, competenza dubbia nel campo delle politiche su asilo e immigrazione.

Abbiamo citato questi spropositi solo per ribadire che occorre sventare il rischio che le proteste di migranti e rifugiati e una certa attenzione pubblica verso il tema dei loro diritti siano presto svuotate e cannibalizzate dalla politica politicista e dai giochi del governo delle intese semi-larghe. Si tratta dunque di alzare il livello della mobilitazione. Della quale una tappa importante sarà di certo l’appuntamento finalizzato a scrivere collettivamente la Carta di Lampedusa. Dal 31 gennaio al 2 febbraio 2014, infatti, movimenti, reti, associazioni delle due sponde del Mediterraneo si ritroveranno nell’isola per elaborare un patto costituente “che metta al primo posto le persone, la loro dignità, i loro desideri, le loro speranze”.

Ma una tappa ancor più rilevante sarebbe quella di una grande manifestazione nazionale, per affermare con vigore che questa volta non permetteremo che tutto ricominci come se niente fosse accaduto.

Chiudere tutti i Cie (e che si estinguano le anime belle, una volta per tutte)

dal sito di Nicoletta Poidimani, condividiamo e pubblichiamo

Nel 1957, Antonio Banfi così definiva le “anime belle”: […] coloro la cui unica preoccupazione è quella di essere sempre a posto con la coscienza e con i grandi principi. […] le “anime belle”, anche se animate dalle migliori intenzioni, finiscono quasi sempre nel campo reazionario.

Da quando, un paio di giorni fa, un telegiornale nazionale ha mostrato  il video del trattamento “disinfestante” imposto coercitivamente e in modo umiliante a donne e uomini rinchiusi in uno dei tanti lager di  Stato – il Cie di Lampedusa – si sono levate le voci indignate delle tante anime belle (e brutte) che popolano questo paese.

E non è la prima volta.

La pratica del piagnisteo è prassi consolidata, pulisce momentaneamente le coscienze di chi scopre cosa gli accade intorno solo se è catodicamente dimostrato. E si indigna. Oh, quanto si indigna! E nell’indignarsi rimuove di essere stato complice – quando non anche fautore – dell’esistenza dei lager del nuovo millennio.

Sono stanca di stare a ripetere che questi lager sono stati creati per legge nel 1998 dall’allora governo di centro sinistra; una legge che porta il nome dell’attuale presidente della repubblica e dell’allora ministra agli affari sociali.

Voglio, invece, rammentare a chi ha ma memoria un po’ troppo a breve termine che, da allora, ci sono stati processi su processi – tutt’oggi in corso – contro chi quei lager non li ha mai voluti.
Lecce, Torino, Bologna, Milano sono tra le principali città che hanno visto un susseguirsi di inchieste-farsa e processi contro donne e uomini che hanno voluto esprimere una solidarietà non solo parolaia con altrettanti uomini e donne rinchiusi lì dentro e hanno denunciato pubblicamente tanto le vessazioni, le violenze anche sessuali, l’uso massiccio di psicofarmaci propinati anche nei cibi – in una parola, la disumanizzazione – ma anche le connivenze e gli interessi ben poco “umanitari” degli enti gestori e delle aziende che di quei lager ne hanno fatto un business – Croce Rossa, Misericordia, Connecting People, Consorzio Oasi,…

E che dire degli immigrati e delle immigrate che, rinchiusi in quei lager, hanno messo in atto delle rivolte e sono stati, poi, processati – magari con tanto di ente gestore testimone dell’accusa – e incarcerati, fino ad essere di nuovo trasferiti in altri “lager della democrazia”?
Voglio ricordare chi, come Mohammed El Abbouby si è “suicidato” nel carcere di san Vittore a Milano quando ha scoperto che, una volta scontata la pena per aver partecipato ad una rivolta nel lager di Milano, vi sarebbe stato riportato. O chi, come Mubraka, si è suicidata nel Cie di Ponte Galeria pur di non essere deportata nel paese di origine. Come loro tanti altri. Per non contare l’infinità di atti considerati di “autolesionismo”: inghiottire lamette o pile, cucirsi la bocca, tagliarsi varie parti del corpo, …

Dove erano le anime belle mentre succedeva tutto questo? Troppo prese dai propri privilegi per esprimere almeno un moto di indignazione?

E oggi che vogliono? I lager “umanitari”, forse?
Lo abbiamo già visto con le guerre: basta che siano definite umanitarie, e i “se” e i “ma” si sprecano nel giustificarle.

L’altro giorno ho scoperto che negli Stati Uniti la schiavitù è stata sì abolita, ma non per chi è rinchiuso in carcere. In sostanza, il corpo di uomini e donne incarcerati è di proprietà dello Stato. Be’, almeno sono sinceri.
In Italia, invece, ci propinano la grandezza e l’umanità di Cesare Beccaria nell’impegno a ridimensionare l’uso della pena di morte, ma senza mai dirci che nel fare, con l’ergastolo, dell’essere umano uno schiavo – una “bestia di servigio” – l’illuminista Beccaria vedeva un
dispositivo assai più efficacemente dissuasivo perché spalmato nel corso dell’intera vita.

Sarà forse per questa formazione ideologica – nel senso di idee dominanti, in quanto della classe dominante – che le anime belle di tanto in tanto aprono gli occhi e si indignano per poi tornare alla propria misera quanto privilegiata quotidianità senza intaccare lo stato di cose esistente e gli apparati che ne garantiscono la perpetuazione?

Di fondo, poco importa. Importa, invece, prendere atto una volta per tutte che il dispositivo che in-forma e modella la vita sociale è quello delle istituzioni totali e che la banalità del male è un ingrediente del quotidiano.

In questo quadro delegare allo Stato che ha “inventato” l’ennesima istituzione totale – i lager per migranti – la soluzione del problema è profondamente stolto, così come è stolto pensare di risolvere con leggi repressive la realtà della violenza contro le donne.
Entrambi – lager di Stato e violenza sessista – sono funzionali al mantenimento dello stato di cose esistente (leggasi divisione sessuale, etnica e di classe del lavoro) e come tali vanno cancellati dalla Terra, non solo nella forma presente ma in tutte le forme con cui sicuramente si ripresenteranno mascherati.

E si fottano le anime belle, una volta per tutte!

quando c’era il futuro…

l’Ambulatorio Medico Popolare è lieto di invitarvi alla presentazione di

QUANDO C’ERA IL FUTURO

tracce pedagogiche nella fantascienza

di Daniele Barbieri e Raffaele Mantegazza

MARTEDÌ 26 NOVEMBRE

c/o PianoTerra Via Confalonieri, 3 – Milano (quartiere Isola MM 2 Gioia)

dalle ore 18,30

storie dei futuri possibili
raccontate da Daniele Barbieri
a partire da questo libro

a seguire aperitivo/benefit per l’AMP

 

quandocera

Hasta siempre, Roma!

Avevamo vent’anni e oltre il ponte
oltre il ponte ch’è in mano nemica
vedevam l’altra riva, la vita
tutto il bene del mondo oltre il ponte.
Tutto il male avevamo di fronte
tutto il bene avevamo nel cuore
a vent’anni la vita è oltre il ponte
oltre il fuoco comincia l’amore.
(da Oltre il ponte di Italo Calvino)

Le compagne e i compagni salutano a pugno chiuso
il Commissario Politico Raffaele detto Roma

L’appuntamento per la Commemorazione sarà
mercoledì 27 marzo alle 14.30 c/o la Sala del Commiato del Cimitero di Lambrate, Milano

Telefono Viola

Ambulatorio Medico Popolare

COA T28

Casa Occupata di via dei Transiti 28

Consultoria Autogestita