Intanto, la sala d’attesa si riempie. Entra una signora peruviana che nel suo paese fa l’insegnante di biologia. «Come me», sottolinea Stella, che ora è badante. Vorrebbe interrompere l’ultima gravidanza. Ha già tre figli e non sa cosa fare. Guadagna di più facendo la badante in Italia che insegnando in Perù: la sua speranza è fare arrivare qui gli altri figli, ora affidati alla nonna. C’è la signora marocchina che era disperata quando uscì il pacchetto sicurezza perché pensava che sarebbe stata denunciata. Non aveva il permesso di soggiorno, ma una patologia seria che richiede cure continuative. Eppure lavora: fa la colf, in nero. Ci sono il maghrebino e l’indiano analfabeti che anche nella loro lingua fanno comunque fatica a capire che devono vaccinarsi. Poi, di fianco, è seduta un’ucraina con laurea in astrofisica.
«Chi viene qui è perché ha un problema: queste persone non sanno cosa fare e hanno bisogno di qualcuno che li aiuti – racconta una volontaria –. Non si pongono il problema di chi siamo: all’inizio volevamo farci pubblicità nei luoghi di aggregazione della zona, ma poi ci siamo accorti che c’era un passaparola rapidissimo. C’eravamo anche attrezzati con i traduttori, ma non serve: i nostri utenti, si portano da soli gli amici che facciano da interprete».
Tra gli utenti dell’Ambulatorio Medico Popolare sono moltissimi i giovani che si sono indebitati per permettersi il viaggio in Italia. Talmente tanto che, dopo quattro anni, stanno ancora tentando di cancellare il debito. Un ragazzo pachistano ci confessa di aver dato dieci mila euro a un impiegato corrotto dell’ambasciata di Islamabad per avere il visto turistico. Sono passati quattro anni: «Ho telefonato a mio figlio a casa che adesso ha otto anni. Gli ho chiesto: ti ricordi di me? Mi ha risposto di no».
Tutti aspettano il medico di base per essere visitati, per ricevere medicinali generici. Aspettano in silenzio. Intanto Stella li registra. «Numero 4056». Stella chiama. Si alza una signora sulla cinquantina con l’amica, che traduce. «Dove abiti? Dove lavori? In che anno sei nata?». Tutte generalità che Stella scrive su apposite cartelle: «Monitoriamo l’eventuale spandersi di certe malattie come tubercolosi, scabbia o semplicemente pidocchi, attraverso banche dati. Le patologie di ieri erano legate al freddo o all’alimentazione. I supermercati etnici oggi hanno fatto la loro. Quindici anni fa arrivavano stranieri praticamente sani, perché arrivava solo chi superava la traversata. Adesso, invece, la situazione è cambiata: abbiamo quelli che, nel frattempo, sono diventati anziani, ci sono i ricongiungimenti. Diabetici, cardiopatici, patologie metaboliche croniche. La seconda generazione ha le stesse patologie degli italiani, ma è la condizione di salute di quelli che oggi sono anziani che preoccupa».
I medici sono tutti volontari. I dottori della zona regalano medicine per liberarsi dei campioni farmaceutici. Oppure ci pensano i vicini di casa: i flaconi che avanzano li portano qui. «In qualche occasione abbiamo fatto ricorso al Banco farmaceutico – spiega Stella, mentre fa entrare i primi clienti nell’ambulatorio –. Siamo in connessione anche con altre strutture di Milano più ricettive che ci forniscono i medicinali quando mancano». Tarek, quando è arrivato per la prima volta nell’ambulatorio, faceva l’operaio in una legatoria. Nel suo Paese aveva studiato storia. Ora è regolare, ha preso un’altra laurea e fa l’educatore per le delegazioni straniere. Nel tempo libero aiuta. I volontari sono i più disparati: dal medico della Caritas in pensione, ai giovani medici alle prime armi, fino a studenti che semplicemente vogliono capirci qualcosa. Perché in fondo qui c’è grande confusione: questa gente lavora, ma non può esser curata, spesso perché è in nero.
«Gli stranieri hanno diritto a qualsiasi prestazione sanitaria, dal cerotto al trapianto epatico – racconta Stella, mentre i pazienti stanno ad ascoltare –. Questo diritto, però, viene costantemente ostacolato dalle pratiche della Regione Lombardia: il codice Stp (Straniero temporaneamente presente) tramite cui i clandestini possono accedere alle cure, solo gli ospedali possono darlo, ma non una struttura come la nostra. In tutta Milano c’è solo un ospedale, con un ufficio istituito da uno dei nostri medici, che rilascia questo codice. In tutta Italia ce ne sono altri, qui no. In Lombardia succede anche questo: che i medici che visitano gli stranieri, regolarmente iscritti, dopo due anni si trovano un numero altissimo di prestazioni non pagate perché, alla data della visita, i pazienti avevano il permesso di soggiorno scaduto o non era ancora stato registrato. Per questo motivo i medici della mutua sono spesso dissuasi dal prestare servizio agli extracomunitari.
La legge prevede inoltre che, per ottenere la tessera sanitaria, sia necessario solo un’autocertificazione di residenza rilasciata dall’Asl e la dichiarazione di domicilio. Da un po’ alcune Asl chiedono anche il contratto di lavoro, la dichiarazione del datore di lavoro, la metratura della casa e la sua autorizzazione sanitaria: documenti che la persona ha già prodotto per il permesso di soggiorno. Quando abbiamo chiesto il perché di questa procedura bizzarra ci siamo dovuti rivolgere al giudice di pace: la questura ha risposto che l’Asl può richiedere i documenti che vuole. Se però accompagniamo noi i pazienti, tramite ambulatorio, la burocrazia sparisce e i migranti ottengono la tessera sanitaria».
Sembrerebbe che a Milano gli stranieri non possano richiedere il codice Stp se regolari, ma non riescano ad ottenere la tessera sanitaria a causa dei tempi lunghi della burocrazia, anche perché il permesso arriva in media dopo un anno e mezzo e scade dopo due. Questi sono tutti gli ostacoli che si pongono davanti ai migranti, ostacoli che contraddicono i diritti fondamentali della persona. «In realtà, anche tutta la mitologia degli sbarchi è, da un lato, atroce, dall’altro inutile: solo il 15% dei migranti arriva con gli sbarchi, gli altri hanno un permesso di soggiorno turistico e poi rimangono anche quando scade. La maggior parte di questi migranti provengono dal Sud America, dall’Est Europa e dall’India. Ma se domandassi in giro chi è l’immigrato tipico di viale Padova chiunque ti risponderebbe: è giovane, maschio e maghrebino. I dati, però,ci dicono che lì identikit del migrante a Milano è donna, peruviana e quarantenne. Ma non la vedi in giro: è nelle nostre case e lavora. È una badante di cui fidarsi».
di Giulia Dedionigi
Video di Giulia Dedionigi, Carlotta Garancini, Gregorio Romeo
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